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Il termine neolitico significa “età della pietra nuova”, poiché l’uomo preistorico passa da una lavorazione grossolana della pietra a una più affinata, ma la vera rivoluzione di questo periodo storico è data dalla scoperta dell’agricoltura che ha portato l’uomo da nomade, sempre alla ricerca di animali da cacciare, a stanziale, con la costruzione di veri e propri villaggi. A questo si aggiunge la capacità di allevare animali di piccole dimensioni che diventano una vera e propria riserva di cibo. La popolazione sarda doveva essere poco numerosa pur avendo a disposizione un territorio vasto e abbastanza sicuro. La società del neolitico era divisa in “clan”, gli uomini si dedicavano soprattutto alla caccia e le donne si occupavano della cura dei piccoli, della preparazione del cibo, della conciatura delle pelli e della realizzazione di piccoli utensili e di vasellame.

 

Esisteva all’interno del clan una scala gerarchica della quale occupavano il gradino più alto i cacciatori, in quanto il loro lavoro era indispensabile alla sopravvivenza del gruppo familiare, un posto di rilievo doveva appartenere anche alle donne perché si occupavano della cura dei piccoli e di assicurare al clan cibo e vestiario. I gruppi erano formati soprattutto da individui giovani per l’alto tasso di mortalità presente nella società del tempo. Con il progredire delle tecniche di coltivazione si affinarono anche le tecniche di costruzione delle abitazioni, si passò dalla vita nelle grotte alla vita nelle capanne. Queste ultime avevano una forma circolare ed erano essenzialmente realizzate in legno e frasche, con il tempo assunsero una forma molto simile ai “pinnettos” che ancora oggi vediamo nelle nostre campagne e nei territori del Gennargentu, cioè una forma circolare realizzata con un muretto di  pietre e una copertura di legno e frasche. Certamente in questa fase storica cominciò ad affermarsi il senso religioso e il conseguente culto dei morti, è di questo periodo il culto della “dea madre”. A conferma di questa tesi è stata ritrovata a Macomer, nelle vicinanze del rio s’Adde, una statuina di basalto, alta 15 cm. riproduce una figura femminile dalla “abbondanti curve” che rappresenta la dea madre ed è chiamata “Venere di Macomer”. La Venere di Macomer è molto simile ad altre statuine ritrovate in Anatolia e nel nord Europa. Il culto della dea madre implicava anche la credenza nella vita oltre la morte perciò si cominciò a seppellire i defunti in tombe scavate verticalmente e coperte con lastre di pietra e alle quali si accedeva attraverso un cunicolo orizzontale La salma veniva inumata in posizione fetale e ricoperta di ocra rossa, per scacciare gli spiriti malvagi e per simulare una “nuova nascita”. Il corredo funerario, composto da alcuni vasi di terracotta e monili di pietra e conchiglie, accompagnava il viaggio del defunto verso la rinascita. Il culto dei morti è testimoniato anche dai vasi che costituivano il corredo funerario. Questi vasi avevano caratteristiche differenti da quelli di uso comune nei clan. Erano lavorati finemente e decorati con la tecnica della “ceramica cardiale”, la decorazione avveniva con il guscio di una conchiglia, Cardium edulis, che lasciava dei solchi paralleli e che veniva utilizzata per imprimere fregi particolari. Ma la chiave di volta, che porta il popolo sardo del neolitico a una vera e propria modernizzazione, è data dalla scoperta dell’ossidiana. L’ossidiana è un minerale vulcanico vetroso, facile da lavorare con il quale era possibile ottenere punte di lancia e frecce molto acuminate particolarmente adatte alla caccia. La versatilità di questo minerale e la facile reperibilità, portò l’uomo a perfezionare la tecnica di lavorazione e a dare vita, con l’andare del tempo, a un vero e proprio mercato di manufatti pronti per essere utilizzati. I sardi del neolitico avevano modi di vita, credenze e sistemi abitativi comuni, vivevano in pace fra loro, questa uniformità ha portato all’ origine di culture, chiamate medioneolitiche, quali la cultura di Bonu Ighinu e, la più importante, Cultura di Ozieri